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PIP 49: I ribelli di San Pietro

Episodio del film collettivo “Checosamanca”

Prodotto da Eskimosa (Feltrinelli) e RaiCinema
Idea e Soggetto: Andrea Segre
Collaborazione soggetto: Cosimo Calamini
Fotografia e suono: Andrea Segre, Francesco Cressati e Matteo Calore
Protagonisti: Marcello Anselmo, Daniele Pasinato, Stefano Zulian,
Lorenzo Signori, Tosin Lucrezia detta Clelia
Organizzazione: Associazione Culturale toniCorti
Foto di scena: Simone Falso
Musiche: Piccola Bottega Baltazar
Regia: Andrea Segre e Francesco Cressati
www.checosamanca.it




1.

L’IDEA

San Pietro, paese con poco più di mille abitanti diviso tra i comuni di Tezze sul Brenta e di Rosà Vicentina, nel cuore di quell’arcipelago imploso che costituisce il non-luogo metropolitano più industrializzato e più ricco d’Italia: il centro del Nord-Est, il triangolo di pianura padana compreso tra le province di Padova, Treviso e Vicenza.

Chilometri di strade provinciali lungo le quali si snocciolano senza soluzione di continuità capannoni, villette, magazzini, gru, cisterne, betoniere e ancora villette.

Dietro le loro mura si nascondono mentalità contadine private dalla bellezza della fatica e abbrutite dall’arroganza di campanilismi ed egoismi, immortalati dalla solida e perfetta alleanza tra l’arrivismo berlusconiano e la grettezza bossiana. Alleanza che a San Pietro di Rosà detiene il controllo di tutti i diversi tipi e gradi di potere: dal parroco all’imprenditore, dall’assessore al deputato, dal giornalista al consigliere provinciale, dall’artigiano al dirigente regionale. Un tessuto di potere che nella certezza della sua inattaccabilità ha costruito un sistema nascosto di connivenza tra organizzazioni mafiose1 e la parte più spregiudicata dell’imprenditoria padana. Un intreccio rinfrancato e rassicurato dalla nuova stagione dei condoni fiscali ed edilizi, voluti dalla centrale alleanza Bossi-Tremonti-Berlusconi, la triade che negli ultimi dieci anni ha saputo far trionfare l’idea di politica come gestione pubblica di interessi privati.


PIP 49 è la storia di come tutto ciò possa ancora essere rifiutato e forse addirittura cambiato.


PIP 49 è la storia di un’inattesa, ma profonda ribellione da parte dei cittadini di San Pietro contro la costruzione della Val Brenta, la più grande Zincheria d’Europa. Cittadini - non militanti di movimenti ecologisti o di minoranze di sinistra - semplicemente cittadini, residenti nella case offese dalla Zincheria, ex elettori leghisti o illusi berlusconiani, risvegliatisi orfani di una cultura contadina totalmente svenduta ad interessi privati di clan imprenditoriali e dei loro club politici.

La Zincheria, denunciano i ribelli di San Pietro, è uno dei più grossi e ben celati affari di ecomafia gestito sulla loro pelle dal connubio tra sei attori: i potenti fratelli Didonè (ingegneri locali diventati negli ultimi dieci anni assessori, sindaci e deputati leghisti) solide strutture camorristiche probabilmente riconducibili al clan Agizza di Napoli, coperture di poteri politici locali e nazionali, silenzi ecclesiastici, ricche strutture finanziarie create ad hoc e connivenze di alcuni settori della magistratura e delle forze dell’ordine.

Il Presidio San Pietro cerca da oltre quattro anni di bloccare la costruzione della Zincheria, denunciandone tutte le violazioni edilizie, ecologiche e urbanistiche, nonché smascherandone le finalità di copertura di un grande deposito di rifiuti tossici, collocato, come nella peggiore tradizione ecomafiosa, nelle fondamenta dell’enorme edificio industriale.

La loro lotta, rara per costanza e radicamento, continua, nonostante le molte difficoltà e i forti ostacoli incontrati lungo la strada: dalla denuncia quasi sarcastica per abusivismo edilizio conto il tendone alla crescita costante dei costi giudiziari, dall’omertà di parte del paese fino addirittura all’episodio inquietante del tentato omicidio che nel novembre 2003 ridusse in fin di vita Stefano, il presidente del comitato.


2.

GLI ANTEFATTI

Negli anni ’90 l’ingegnere Beniamino Didonè, assessore all’urbanistica della giunta leghista di Rosà, prepara il terreno per la conversione in zona industriale di un’area verde nella frazione di San Pietro; area per altro protetta dalla Sovrintendenza come sito di interesse archeologico per alcuni resti di un insediamento paleo-veneto. Il progetto viene poi portato a termine nella seconda metà dei ’90 dal fratello di Beniamino, Giovanni Didonè, divenuto Sindaco di Rosà nel 1997: nasce così il PIP 49 (Piano per Insediamenti Produttivi numero 49), che prevede la costruzione di una gigantesca Zincheria (la più grande d’Italia) proprio in mezzo alle case di San Pietro. Gli abitanti di quelle case e tutto il paese si organizzano immediatamente in un Comitato di Protesta, che dà vita al Presidio San Pietro, una tendone costruito a pochi metri dal cantiere, per provare a bloccare o almeno rallentare i lavori.

Il piano però procede, protetto a tutti i livelli politico-economici (il sindaco Didonè diviene nel 2001 deputato leghista e il fratello, ex-assessore, assume il ruolo di ingegnere capo del cantiere per la Zincheria): i cittadini del Presidio raccolgono prove su prove e denunciano sia l’abuso edilizio (per legge una Zincheria non può essere costruita a meno di 500 metri dalle case), sia il traffico di rifiuti tossici legato allo scavo delle fondamenta (confermato dai risultati di un carotaggio, per altro mal eseguito dalla Procura di Bassano del Grappa, e reso probabile anche dalla notizia incredibile dell’arresto per partecipazione ad organizzazione eco-mafiosa dello stesso Beniamino Didonè), sia la violazione del sito archeologico. Le denunce in alcuni casi ottengono anche sentenze positive (come quella del Consiglio di Stato sull’abuso edilizio), ma i lavori non si fermano mai: la tensione cresce e si fa molto pesante nell’autunno 2003. Il 21 novembre il Comitato ottiene il sequestro del cantiere. Ma due giorni più tardi Stefano Zulian, presidente del Comitato, viene sprangato da ignoti nel centro di Rosà, proprio mentre si appresta a consegnare i risultati di un referendum cittadino per la separazione di San Pietro dal Comune di Rosà. Stefano rimane dieci giorni in coma, ma sull’aggressione i carabinieri aprono un’inchiesta sul mondo dei Bikers (motociclisti con Harley Davidson), che Stefano frequenta per hobby, evitando volutamente di legarla alla questione del PIP49. Informalmente l’azione viene invece rivendicata dal potere politico locale: è il padre del sindaco pochi giorni dopo a far sapere in un bar ad un altro animatore del Comitato che “questa volta è stato colpito il pastore, la prossima volta tocca alle pecorelle” e voci di paese dicono che l’onorevole Giovanni Didonè abbia commentato l’evento con un sarcastico quanto terribile “Così evita di immischiarsi in cose che non lo riguardano!”. Pochi giorni dopo il sequestro del cantiere viene revocato.

La tensione è altissima e il silenzio mediatico assordante: i ribelli del Presidio si sentono ancora più uniti da questa situazione e continuano a lottare , nonostante le minacce si facciano sempre più pesanti e il deserto della paura cresca inesorabile attorno alla loro tenda: alcuni di loro, tra cui anche Stefano, sono costretti a chiudere le proprie attività economiche, altri vengono tamponati in auto da sconosciuti, qualsiasi giornalista cerchi di parlare di loro viene bloccato ed infine parte anche una denuncia beffa da parte del Comune per “abusivismo edilizio” contro il proprietario del piccolo terreno su cui è stato innalzato il tendone del Presidio.


3.

IL FILM

PIP 49 racconta, con il linguaggio immediato, ironico e tagliente del cinema-documentario, sei mesi cruciali nella lotta dei cittadini di San Pietro, quelli tra febbraio e giugno 2006, dalla cena di autofinanziamento a base di “poenta e osei” alla conferenza dei servizi durante la quale il Comune di Rosà e la Provincia di Vicenza danno alla Zincheria l’autorizzazione ad iniziare la lavorazione., nonostante l’assenza di una Valutazione di Impatto Ambientale della sua attività sul territorio.

E nonostante le molte domande ancora irrisolte non abbiano ricevuto una risposta: perché non è possibile fare un’indagine seria e completa sulle fondamenta della fabbrica? Perché non si rispettano sentenze del Consiglio di Stato che denunciano l’abusivismo edilizio legato alla Zincheria? Perché non esistono indagati per il tentato omicidio di Stefano?


Tutte domande che Marcello Anselmo, il radiogiornalista napoletano la cui inchiesta guida lo sviluppo narrativo del film, non è nemmeno riuscito a porre alle autorità pubbliche e ai proprietari della Zincheria, che sistematicamente hanno rifiutato di incontrarlo.


a) luogo e personaggi.

Una tenda di venti metri, come quelle dei campi di bocce. Questo è “fisicamente” il presidio. All’interno, un nylon lo divide in due. Articoli di giornale appesi alle pareti. Una stufa a legna, per scaldarsi e cucinare. Un frigo. Un tavolo dove si organizzano le cene per auto-finanziarsi: soppressa, polenta, grappa, costicine, pasta&fasioi, vino, baccalà, battute, scherzi, serietà, ironia, il tutto amalgamato dalla sapienza culinaria e matronale di Donna Clelia (la più anziana delle donne del Presidio). Fuori, al di là della strada, l’immensa Zincheria: gialla, spropositata nella sua altezza, minacciosa nel suo roboante silenzio, un’ enorme balena di metallo brutalmente incollata alla campagna nebbiosa della devastata pianura vicentina.

Gente di tutte le età gira dentro al presidio: chi si occupa del cibo, chi della legna, chi della pulizia e chi semplicemente di sollevare il morale con battute e simpatia. Anziani, pensionati, ma anche ragazzi. Il Presidio è diventato ormai una scelta di vita per chi, come Stefano, Lorenzo e Daniele ha deciso di non accettare l’inaccettabile:


Daniele Pasinato, trent’anni, gli occhi colmi di collera. E’ lui il vero protagonista del film. Operaio metalmeccanico. Vice presidente del comitato. Ha rabbia da vendere. Si sente sbeffeggiato dalle istituzioni che, a detta sua, sono colluse con interessi mafiosi. E’ molto attivo nel cercare di coordinare la lotta del Presidio con quella di altri comitati cittadini veneti e nazionali. Per dedicarsi completamente al Presidio Daniele ha messo in stand by la propria vita: “volevo sposarmi, ma poi ho preferito aspettare”. La casa che suo padre gli aveva comprato con anni di sacrifici è ancora vuota, immobile: aspetta che la vita di Daniele possa ritornare normale. Ma nulla potrà essere normale finché giustizia non sarà fatta, finché la rabbia continuerà a scorrere pesante e incontrollabile nelle vene del combattivo giovane vicentino.


Lorenzo Signori, cinquant’anni passati, capelli corti, occhi furbi, intelligenza analitica e una sottile vena sarcastica. Lavora al Sert di Bassano del Grappa da dove passano circa duemila tossicodipendenti all’anno: “sono loro i figli dell’angoscia che abbiamo costruito in quindici anni di sviluppo” racconta senza nascondere amarezza. E’ lui l’anima politica del Presidio: Lorenzo è stato sindaco democristiano di Rosà alla fine degli anni ’80 e subito dopo anche consigliere della provincia di Vicenza nelle fila di Forza Italia. Quando ha iniziato ad occuparsi della questione della Zincheria, Lorenzo è stato convocato dal collegio dei probi viri di Forza Italia a Padova. Gli hanno chiesto di lasciar perdere la faccenda: lui non ha accettato, ha lasciato il partito e abbandonato la politica, tornando al suo lavoro al Sert e mettendo la sua esperienza al servizio del Presidio. In pratica si ritrova a lottare contro i suoi ex-colleghi di partito. Conosce benissimo i meccanismi del potere e cerca di scardinarli dall’esterno.


Stefano Zulian, presidente del Presidio e suo malgrado protagonista dell’aggressione nel novembre 2003. Trent’otto anni, un gigante di un metro e novanta per oltre cento chili; capelli lunghi, pizzetto: sembra un antico guerriero sassone, uscito con disinvoltura dal cast di Brave Heart. Panettiere di professione, archeologo per passione: esperto di cultura “paleo-veneta”, è il custode della chiesetta di San Pietro, sito archeologico simbolo della civiltà celtica nel Veneto paleo-cristiano. “Questo nostro patrimonio archeologico – spiega mentre illustra gli scavi della “sua” chiesetta – dovrebbe essere caro al potere leghista e invece lo cancellano per seguire la loro unica anima, quella affarista.” Stefano ha modificato completamente la sua vita per il Presidio: dopo l’aggressione ha chiuso il suo negozio di alimentari e si è separato da sua moglie ed ora vive solo, sopra il forno di famiglia in cui lavora tutte le notti.


Lucrezia Tosin detta Clelia

Al presidio scherzano e dicono che è la loro segretaria. Ma c’è poco da scherzare. Clelia, piccola, tenace, verace e potente signora cresciuta tra la fatica dei campi e la responsabilità della famiglia, è l’organizzatrice concreta e mai assente di tutte le attività con cui il Presidio si autofinanzia: cene, lotterie, gite, sottoscrizioni. Tutto è coordinato da lei.

“Il Presidio mi ha ridato la vita. Dopo la morte di mio marito ero rimasta sola, ma qui sotto il tendone ho trovato una nuova famiglia.” Racconta accarezzando i suoi conigli nell’aia dietro casa, tempio antico di un mondo quasi scomparso che al presidio orgogliosamente difendono. “Siamo nati campagna e dovremmo morire campagna. Non in mezzo alle industrie, perché ormai non siamo nient’altro che industria”.


Marcello Anselmo

Radio-documentarista napoletano che, incuriosito dalle denunce del presidio di connessione tra industriali veneti e clan camorristici, ha raccolto tra febbraio e giugno testimonianze, voci, storie di questa complessa e tutt’altro che risolta vicenda. In PIP49 è lui che ci guida tra le strade e i campi di San Pietro.


4.

NOTE DELL’AUTORE

La necessità di parlare.

Quando nel dicembre del 2005 sono andato a trovare per la prima volta i ribelli di San Pietro, ho raccontato loro con chiarezza per quale progetto ero interessato alla storia: loro si sono dimostrati entusiasti, spiegandomi con lucidità e amarezza che ciò di cui hanno disperato bisogno è di trovare spazi extra-regionali per raccontare e far sapere quanto sta succedendo nelle loro terre, tra le loro case, nelle loro vite, sui loro corpi.

Quando nella pelle vivi la certezza di un’ingiustizia, quando capisci di aver capito ciò che doveva rimanere nascosto, la rabbia diventa una pentola a pressione difficilmente controllabile. Ma quando quella pressione non trova alcuna valvola di sfogo oltre i confini rigidi della tua pentola, la rabbia ti mangia dentro, ti stringe le vene, ti annebbia il cervello.

Il piccolo mondo della tua pentola inizia a descriverti come strano, come cocciuto, inguaribile pessimista. Iniziano i consigli a lasciar perdere, a rinunciare, ad accettare. E se quelli non bastano iniziano le accuse, le denunce e se necessario anche le minacce.

La pentola si riempie di vapore, il vapore inizia a puzzare, le pareti si fanno insopportabili.

Gli amici iniziano a non sopportarti, ti evitano e i loro volti si tingono di commiserazione.

Ma tu insisti, reso ormai insonne dalla certezza di ciò che hai visto: i camion che trasportano i rifiuti sotto le fondamenta, le mura della Zincheria che crescono a dismisura oltre i limiti, gli insediamenti archeologici violentanti, sindaci e assessori che irridono la tua rabbia, brindando ai loro affari.

Non ce la fai, non puoi tacere. Hai fatto l’errore di provare a capire e ora che hai capito non puoi più fermarti.

Così insisti, continui ad esprimere la tua rabbia, ad innalzare la tua parola, sapendo perfettamente che l’unico vero nemico dell’ingiustizia è la conoscenza e che l’unico strumento di conoscenza è la parola.

Insisti, dentro alla tua pentola, dove la pressione ricomincia a salire, fino a trasformare le accuse, le minacce in violenza.

Non te lo aspettavi.

Nessuno dei ribelli di San Pietro si aspettava che quanto è successo a Stefano potesse davvero succedere.

“Sprangate di ferro sulla scatola cranica”. Daniele lo ripete sempre, con la voce chiara, forte e gli occhi rossi di rabbia. E paura.

Io non posso ufficialmente sapere chi ha cercato di uccidere Stefano Zulian.

Ma so con chiarezza, con incancellabile, pesante e indiscutibile chiarezza che qualcuno non solo ha cercato di ucciderlo ma ha anche voluto far sapere che anche a San Pietro di Rosà è facile, facilissimo cercare di uccidere qualcuno senza rischiare alcuna incriminazione.

“Sprangate di ferro sulla scatola cranica”.

Non se lo aspettava nessuno al Presidio.

Ma ancora meno si aspettavano che un fatto di così immensa gravità potesse non solo rimanere impunito, ma anche volontariamente e vergognosamente nascosto.

Nessuno tra gli amici e i conoscenti padovani a cui ho raccontato la storia del Presidio e dell’aggressione a Stefano conosceva o ricordava l’evento. Nessuno. Me compreso.

E San Pietro è a 40km da Padova.

Ma evidentemente, dentro una solida e inossidabile pentola a pressione.

“E’ stato solo perché me l’hanno chiesto i parenti di Stefano che all’epoca non ho scatenato una guerra civile!” Ascoltando Daniele è come se il mondo potesse continuare a vivere il panico e la rabbia di quei giorni del novembre 2003.

Ma chi ascolta Daniele? Con chi può parlare Daniele?

Chi è stato a novembre nelle campagne meccanizzate della provincia veneta sa bene di cosa parlo: i campi immobili, la nebbia pesante, i capannoni incollati al cemento, le auto grigie e lucide sull’asfalto bagnato, le finestre chiuse delle villette isolate, e la luce che non c’è. Non è facile trovare il modo di parlare. Non è facile trovare il luogo dove parlare.

Così Daniele di notte, quando l’insonnia ribolle nella pentola, fuggiva in un pub sulle colline sopra Bassano. Come i pastori di montagna, come i carbonari, come i partigiani: si chiudeva in quel pub, si appoggiava al bancone e dopo qualche birra iniziava a parlare con chi gli stava accanto.

Se non capitava di essere la persona accanto a Daniele in quel pub, era molto difficile poter davvero capire il significato della rabbia e della lotta del Presidio di San Pietro.

I giornali e le tv locali. finché hanno potuto, hanno parlato della lotta del presidio e dei dubbi sulla Zincheria, ma mai erano emersi con chiarezza il cuore tremante e la rabbia sincera che segnava la vita dei cittadini di San Puetro come Daniele, Lorenzo o Clelia.

Così anch’io, quando ho sentito parlare per la prima volta del presidio, avevo avuto l’impressione di una delle mille piccole lotte di quartiere, di vicinato: cittadini spinti a difendere il loro piccolo cortile, impauriti di perdere il valore dei propri immobili e interessati alla propria vita privata.

Solo vivendo a contatto con gli occhi, le mani e i corpi dei ribelli di San Pietro ho potuto invece capire la profondità della loro paura, la drammaticità del loro senso di impotenza, la genuinità del loro bisogno di difesa.

A San Pietro non è in gioco la qualità della vita di qualche famiglia, bensì la necessità di mettere in luce il complesso, denso e pericoloso intreccio tra l’imprenditoria della regione, della provincia più industrializzata e produttiva d’Italia e gli interessi pesanti di organizzazioni di potere che ben poco hanno a che fare con l’onestà e l’operosità del millantato miracolo nordestino.

La assoluta mancanza di risposte sui forti dubbi legati alle fondamenta e ai capitali della Zincheria, l’omertà e l’impunità che adombrano l’episodio inquietante dell’aggressione mortale ai danni di Stefano e la pesante mancanza di rispetto delle norme basilari che dovrebbero preservare qualsiasi territorio da rischi ambientali non possono non condurre un osservatore attento a intravedere nella vicenda di San Pietro una connessione almeno potenziale con l’influenza che poteri mafiosi e camorristici hanno in alcuni aspetti e ambienti dello sviluppo industriale veneto.

Non sono Daniele o Lorenzo ad aver scoperto per la prima volta che i rifiuti tossici di molte industrie pesanti venete vengono smaltiti illegalmente dai clan camorristici campani: Daniele, Lorenzo e gli altri del Presidio sono però tra i primi ad avere il coraggio di parlarne senza imbarazzi o omissioni.

Il problema è che sino ad oggi avevano potuto parlarne solo a quel balcone del pub di montagna o comunque dentro la loro stretta, pesante e nebbiosa pentola a pressione.

Mi auguro che il nostro piccolo film, grazie al coraggio e all’impegno di due grandi gruppi dell’industria culturale italiana (Feltrinelli e RaiCinema), possa diventare una valvola di sfogo nazionale per la più sacrosanta delle richieste in una democrazia moderna: la necessità di far emergere la verità.

Troppe domande non hanno risposte, troppi dubbi circondano la grande Zincheria gialla: credo sia interesse di tutti affrontare queste domande e questi dubbi con quella chiarezza e competenza che sino a qui sembra sia stata volutamente evitata.

Perché nessuno sviluppo economico che voglia rispettare la vita privata e sociale delle comunità, può pensare di poggiare le proprie basi solide sui fanghi tossici del silenzio e dell’impunità