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Ma alla fine in realtà ci annoiamo

Riflessioni sul sistema produttivo e distributivo del cinema italiano

Il ritorno grazie al Premio Lux di Io Sono Li alla Mostra di Venezia un anno dopo il suo esordio è davvero una bella sorpresa, la ciliegina sulla torta di un percorso ricco di soddisfazione; dai tanti riconoscimenti di festival e critica, al buon successo di pubblico in Italia (circa 500mila euro di CineTel) e agli ottimi risultati della distribuzione internazionale (in Francia 85000 spettatori in 12 settimane, ma il film è ancora in sala, e la vendita in oltre 20 paesi in tutto il mondo).

Detto questo sarei cieco e ipocrita se non esprimessi qui tutta la fatica e la rabbia per un sistema produttivo e distributivo che in Italia impedisce la crescita alle nuove esperienze, che stanno profondamente rinnovando e rilanciando l'arte cinematografica italiana.



C'è un dato molto semplice che ben chiarisce ciò che stiamo vivendo: la gran parte dei film che in Italia dominano il mercato non riscuotono alcun interesse (o ben poco) nei mercati e nei circuiti dei festival internazionali.
Contemporaneamente la gran parte di chi in Italia è riuscito con fatica a realizzare progetti di cinema d'autore e a raggiungere l'attenzione del pubblico, lo ha fatto passando per l'estero grazie o a co-produzioni o al sostegno di grandi Festival.
Alla base di questa situazione vi è un sistema distributivo che non si basa sul rapporto film-pubblico, ma su quello film-pubblicità. La storia è ben nota: sale invase da centinaia di copie di film commerciali imposti da quattro grandi distributori e tempi brevissimi di permanenza, con nessuna possibilità di generare passaparola tra le persone. Ma, attenzione, è una storia ben nota solo tra gli addetti ai lavori; il pubblico "normale" è semplicemente convinto che alcuni film siano di successo e altri piccoli e difficili. E ovviamente non sa che in realtà non esiste competizione possibile. 
Gli unici film d'autore che possono sperare di avere successo sono quelli che ottengono grandi visibilità internazionale (Sorrentino, Garrone, in parte Crialese, Vicari e pochi altri), anche se ora il rischio è che anche questo non basti più.
Se si vuole cambiare la situazione serve una scelta politica nuova e chiara: per il Paese è utile e importante avere una cinema d'autore capace di indagare la realtà, di far riflettere le persone e di avere successo internazionale. Se questo fosse il punto di partenza allora si prenderebbero delle scelte economiche e strutturali diverse e si riaprirebbe il sistema produttivo e distributivo ad una relazione più normale e viva con la qualità dei film e non solo con le loro caratteristiche pubblicitarie e commerciali.
Noi autori dobbiamo continuare a dire con chiarezza le cose come stanno e a chiedere questo cambio di rotta che dovrebbe cominciare con il perseguimento di (invece di partire da ottenere) tre importanti cambiamenti, che mi paiono certamente non unici ma prioritari: spazio televisivi in prima serata per i film d’autore tanto di finzione quanto documentari (magari avendo il coraggio di confonderli); un limite al numero di copie di prima uscita nelle sale e la conseguente possibilità di aumentare le sale se il film ha una media copia elevata; cambiamento dei componenti e dei metodi di valutazione delle commissioni per i finanziamenti pubblici, che tengano conto nel punteggio anche dei successi internazionali di autori e produzioni.

In questi ultimi mesi ho attraversato l'Italia con i miei film e ho trovato in ogni città centinaia di cittadini che ripetevano con chiarezza un grido di dolore e dignità, per poter mantenere il diritto di vedere e far vedere un cinema intelligente, vivo, attento.
Una mattina al Cinema Visionario di Udine un ragazzino di 15 anni alla fine della proiezione di Io Sono Li ha chiesto la parola: "Vi ringrazio per avermi fatto vedere questo film, perché non sapevo esistesse anche questo modo di fare cinema. Ogni sabato pomeriggio mi portano al Centro Commerciale con altri amici, vediamo sempre i soliti film, ci convinciamo che siano divertenti, ma alla fine in realtà ci annoiamo." 300 suoi compagni di classe hanno applaudito.
Abbiamo un dovere civile e storico: ascoltare il dolore e il desiderio di quei 300 ragazzi e degli altri migliaia di cittadini come loro.